Per non dimenticare. Storia di un deportato roglianese *
di Enzo GABRIELI *
SONO passati trent’anni da una delle mie prime interviste che apparve sul giornale parrocchiale di Rogliano nel marzo 1994; avevo incontrato il signor Domenico Rota che mi narrò la sua terribile esperienza di deportato a Mathausen. Proprio per mantenere fede all’impegno di non dimenticare quanto accaduto, oggi più che mai spetta ancor di più a noi il compito di dar voce a chi ha visto e sperimentato la diabolica opera nazista. Domenico nato a Rogliano il 5 gennaio del 1923, con la chiamata alle armi, nel 1939, fu inviato a Villa Santina per le fortificazioni di Udine. Nel dicembre successivo fu trasferito in Francia con le truppe di occupazione e con gli alleati tedeschi. “Furono anni difficili – ci raccontava il signor Rota – però ebbi modo di prendere il primo e il secondo patentino per guidare gli automezzi e questa cosa mi salverà la vita. Guidavo i 126 a benzina con portata 30 quintali e dovevo essere proprio bravo per fare 3 km con un litro. Poi fui aggregato al settimo alpini per il trasporto di materiale edile per la costruzione dei fortini ma tutto precipitò con l’armistizio dell’otto settembre del 1943”. Ero giornalista in erba, giovane ma tanto appassionato, e Domenico mi raccontò come l’Esercito Italiano era andato in rotta ed iniziava il periodo del grande sbandamento. “Eravamo rimasti bloccati con i camion carichi di gallette e scatolette da consegnare a Nizza. Per una lite ci trovammo al di là del confine e per le truppe italiane fu un patatrac …”. Rileggendo quella semplice pagina di giornalismo locale, oggi più di allora, posso cogliere la portata di quella testimonianza che voglio riproporre attraverso queste pagine di memoria. “Il capitano degli alpini ci consigliò di consegnare le armi perché ogni due ore c’era un treno che ritornava in Italia. Facemmo come ci avevo ordinato ma lui rimase in armi con i tedeschi e a noi che non volevamo collaborare è andata male. Chi collaborava aveva la possibilità di essere impatriato, dicevano, ma molti si davano alla macchia con i partigiani. Io non volli collaborare e rimasi in Francia senza sapere per chi combattere. Sono stato un uomo dalla testa dura e non ho ceduto in nessun modo. Ecco perché i tedeschi mi costrinsero a trasportare munizioni verso la Normandia. Ci mettevano su un camion in autocolonna controllandoci a vista, con la minaccia delle armi, ci costringevano a guidare per migliaia di chilometri per rifornire i loro soldati”. Ricordo ancora oggi la voce triste di Domenico, le parole terribili che non nascondevano paura e rabbia, ma anche quanto ci diceva a noi ragazzi della parrocchia che sognavamo di fare i giornalisti: “queste cose le dovete sapere, le dovete raccontare perché non devono accadere più, dovete sapere che tanti italiani hanno sofferto e tanti altri sono morti”. Costretto a collaborare ma non ad aderire, cosa che gli avrebbe garantito una bella vita “perché a chi collaborava davano una paga e davano da mangiare, provai con la strategia del boicottaggio e della resistenza passiva e dei tentativi per rallentare le procedure di fornitura”. L’anziano roglianese sorrideva quando narrava alcuni episodi, si commuoveva quando ne descriveva altri. “Pensai di fermare il camion. Bloccato l’automezzo ero sicuro che mi avrebbero lasciato a terra senza inviarmi al fronte a portare le munizioni ai tedeschi. Studiai il mio piano e presi uno scatolino di pasta smeriglio perché praticavo l’officina e versai contenuto nel serbatoio dell’olio del mio camion. L’automezzo fece un po di chilometri e poi pistoni, bloccati dalla pasta, si ingripparono e non facevano più compressione.
Eravamo in 15 italiani che tentavamo in ogni modo di fare resistenza. Stavamo sempre insieme si dormiva in un’unica baracca. Avevo confidato loro il mio piano ma uno di quelli ci ha tradito. Era di San Giovanni in Fiore, un certo Domenico. Lui fu premiato per aver confidato il nostro piano ai tedeschi. Non l’ho più incontrato. Al momento del rimpatrio e anche dopo molti anni ho pensato che se l’avessi trovato l’avrei mangiato vivo per il suo tradimento e per la punizione subita. Capii che era in atto una punizione quando al momento della paga io non fui pagato. Dopo un’ora fui legato ad un cannone e mi lasciarono lì per tutta la notte al freddo. Al mattino mi chiesero di collaborare con loro ma mi rifiutai ancora una volta e un caporal maggiore mi confidò che mi avrebbero processato in Germania e che la mia situazione era tragica. Così fui inviato sotto la sua scorta in Germania a Offenburg. Qui fui processato ma devo dire di avere incontrato oltre a questo caporal maggiore, che comunque mi voleva bene, anche tante persone buone che cercarono di salvarmi la vita. Lo stesso interprete mi disse di negare sempre. Sei già morto, sei un morto che cammina … nega sempre… . Può darsi che così la farai franca”. A quel punto ci confidò la sua paura e decise di fidarsi di quelli che gli sembravano gli unici amici. “Fui portato in uno stanzone dove due soldati mi pestarono per bene per farmi confessare, ma io ho sempre negato. Alla fine mi andò bene perché mi diedero 18 mesi di lavori forzati alle fonderie di Butuschinchen collegate al vicino campo di concentramento di Mauthausen. Era uno dei campi di concentramento dove furono sterminati non solo ebrei ma anche tanti soldati di diverse nazioni fra questi anche degli italiani. Eravamo divisi in 150 baracche linguistiche, si lavorava l’alluminio per realizzare dalle mostrine delle uniformi ai monoblocchi per gli aerei. La fabbrica era lunga circa un chilometro e mezzo”. Nel libro “Ricordi di prigionia” di Lorenzo Rubechi pubblicato nel 2014 c’è una descrizione similare di quanto Rota aveva detto del campo: “a lavorare eravamo in 40 mila, uomini e donne di 23 nazioni diverse. Distava dal campo 6 chilometri, che percorrevamo a piedi in un’ora e un quarto, in ogni condizione atmosferica. I trattamenti dei primi giorni erano terribili. Il mangiare era orribile: una mescolata di brodaglia e una fetta di pane; al mattino una tazza di caffè, “acqua nera” che prendevamo alle quattro e un quarto quando ci alzavamo per andare al lavoro. Gli abiti erano sempre gli stessi; non potevamo cambiarci e dopo un po’ erano completamente logori. Per rimediare li abbiamo cuciti con il filo di ferro. Più tardi ci hanno portato dei vestiti: erano dei prigionieri che avevano ucciso a Mauthausen”. “Quando vidi quel campo mi cadde il mondo addosso proseguì ancora Rota – era uno squallore. I giorni erano tutti uguali si lavorava dalle 5.00 alle 23.00. Ci davano da mangiare una pagnotta di un chilogrammo al giorno da dividere per 8 persone e una brodaglia di segale. Io ero giovane avevo tanta fame e al ritorno dal campo pesavo meno di 45 kg. Per andare al bagno c’era l’orario stabilito e per bere usavamo l’acqua dello scarico dei water. Io vi rimasi fino al 1945”. Alla nostra domanda su cosa sapevano degli ebrei Domenico così ci rispose: “si vedevano
partire su dei camion … sparivano di giorno in giorno. Non vedevamo nulla se non l’esterno dei forni ma tutti sapevamo che venivano mandati ai forni per essere uccisi. Chi entrava non ne usciva vivo. Ricordo anche un’altra volta che un caposquadra per umiliarmi mi butto un tozzo di pane che cercai di afferrare ma che cadde in questo grasso a terra; lui ridacchiando mi ricordo che era buono da mangiare perché era umano, era di ebrei. Per fame lo pulii sulla divisa e lo mangiai”. Il soldato Rota era intraprendente
e non voleva restare in quel campo. Studiò anche un piano di fuga dopo che il suo compagno che dormiva al letto accanto al suo gli era morto la notte precedente. “Insieme ad un russo decidemmo
di scappare e reperimmo anche una cartina topografica attraverso alcuni contadini. Tentammo la fuga di notte ma ci presero dopo poche ore ci condussero legati con una catena come esempio per tutto il
campo e per intimidire gli altri. Fui picchiato per ore e mi misero a digiuno. Ma non contento, dopo un
mese tentai una nuova fuga, calandomi con altri 11 da un balcone della fabbrica con una fune fatta con le strisce di alluminio. Scendemmo in un canale di acqua profondo 3 m per 2m. Anche in quel caso sbagliammo il percorso a causa della fitta nebbia e qualcuno di noi toccò i reticolati collegati ad una sirena e a delle mitragliatrici. Insieme ad un indocinese francese ci buttammo in un cunettone d’acqua appena uditi gli spari. Degli altri non sapemmo più nulla e non li abbiamo più visti. Dopo diverse ore, giungemmo ad un paese al buio ma non sapevamo dove eravamo. Raggiungemmo la Svizzera, dopo diverse peripezie, e due guardie di confine ci portarono al comando, ci rifocillano e fummo ricoverati a Berna. Poi fui rimpatriato, era il 7 luglio del 1945”.
*sacerdote e giornalista
Fonte: Parola di Vita