Arriva Caribardu! (2^ parte) *
di Luigi Michele PERRI *
NEL suo tragitto, tra Coraci e Agrifoglio, e, successivamente, lungo la principale arteria (la “Ferdinandea”) della Valle del Savuto, da Marzi a Carpanzano a Rogliano, Garibaldi fu sempre circondato e acclamato da folle festanti, soprattutto da contadini e popolani desiderosi di abbracciare nel Conquistatore le speranze di un domani migliore, che potesse riscattarli da un passato di stenti e di servaggio. Dovunque, la gente lo osannava, lo invocava, cercava di avvicinarglisi, di invitarlo a fermarsi per esprimergli la gratitudine che meritava. Lui, stanchissimo, tormentato dall’arsura di una giornata canicolare, beveva acqua fresca con rum, mangiava frutta, preferibilmente uva che i suoi assistenti, al passaggio, staccavano a grappoli dalle gravate viti circostanti. Era a cavallo. Lo affiancavano i suoi generali Cosenz, Gusmaroli, Lamasa, il pizzitano Benedetto Musolino, ma soprattutto i fratelli Morelli e Altimari, alle spalle le Camicie Rosse, la colonna dei morelliani, tra i quali spiccavano il prestante Pietro Monaco della contrada Macchia di Spezzano Piccolo, uno che i Borbone se li sarebbe mangiati vivi (e che diventerà brigante in odio al “nuovo corso”), e altri utili ceffi assoldati dalla famiglia roglianese. Il popolo, incontenibile nella sua gioia, faceva ressa e urlava:” “Caribardu!”, “E’ bbenuto Carrubardu. Bbonu venutu!”, “Evviva Caribardu!”, con le più strane storpiature dialettali. Le donne, con ceste di frutta protese verso gli uomini a cavallo, gridavano: ”Ohi, chi te via benedittu!”, con esclamazioni variamente esultanti. Ci fu chi riuscì ad avvicinarsi al Condottiero e a dargli un pezzo di pane nero. Ad un certo punto, Garibaldi, esausto, sussurrò a Donato Morelli che aveva a fianco: ”Morelli, salvatemi”.
Il roglianese capì che il suo idolo cominciava a mal sopportare quella massa scomposta e vociante. Fu così che Garibaldi fu fatto scendere da cavallo e accomodare in una vettura postale, più al riparo dalla gente. Ne discese al rione Serra, alle porte di Rogliano. Carlo Morelli, un terzo fratello della nidiata dello scomparso patriarca locale Rosalbino Morelli, gli offerse uno scalpitante cavallo bianco e lo invitò a seguirlo. Tra le acclamazioni della popolazione e gli spari di fucili e di mortaretti, lungo la strada addobbata con festoni e bandiere tricolori, il corteo arrivò al Palazzo Morelli, lo stesso che, sedici anni prima, aveva ospitato i Borbone, Ferdinando II°, la regina e la loro corte.
Dell’intero percorso calabrese, sotto il profilo politico, la tappa roglianese rivestì una rilevanza cruciale in ragione dei provvedimenti assunti dal Dittatore. Che li illustrò brevemente al popolo, parlando dal balcone principale dell’imponente residenza: nominò Donato Morelli governatore (prodittatore con pieni poteri) della Calabria citeriore; emanò tre decreti mirati all’abolizione della tassa sul macinato, all’esercizio gratuito degli usi di pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila e alla riduzione del prezzo del sale da otto grani a quattro. In poche righe, tre per decreto, Garibaldi risolse la secolare problematica demaniale e silana con quella coeva degli “usi civici”, l’altrettanto antica vessazione della odiata gabella sul macinato e uno dei problemi di primario interesse per l’economia meridionale e, in particolare, per i ceti subalterni, tutte componenti costitutive di quella che più vastamente sarà la “questione meridionale”.
A sera Garibaldi fu a Cosenza. Tenne un discorso. Da qui partì il giorno successivo. Tuttavia, si prese il tempo di rendere, commosso, ogni onore alla tomba dei fratelli Bandiera e dei loro compagni. Si diresse verso Castrovillari e da qui si portò a Scalea dove, il 2 settembre, s’imbarcò per Sapri. Il 5 dello stesso mese il governatore Morelli, avvalendosi dei suoi poteri e a salvaguardia degli interessi della casta dei proprietari-usurpatori, mise in vigore un suo provvedimento per svilire gli effetti dei decreti emanati da Garibaldi il 31 agosto precedente. Finì per deludere ogni aspettativa popolare e dissolvere quel clima di calda fiducia che aveva accompagnato l’impresa. Fu così che la politica garibaldina, che aveva donato alla rivoluzione nazionale la partecipazione popolare di cui, fino a quel momento, era stata priva, rimase impressa sulla carta per fare storia e, in ragione della interdizione vincente del gattopardismo incalzante, mai poté proiettarsi nella società per fare giustizia ed evitare i drammi di due epocali fenomeni di ritorno, brigantaggio ed emigrazione.
*giornalista e scrittore
[Seconda puntata. Fine]